Secondo i miei genitori, la pazza sono io. Mi occupo di disagio mentale da sempre. Ho quarantacinque anni, una laurea in psichiatria, una laurea in psicoanalisi, un master in alcoologia, ho fatto diversi corsi e da quando avevo diciott’anni frequento case di cura, riabilitazione, centri di disintossicazione. Adesso, da alcuni anni dirigo un centro nel quale vengono convogliati malati di alcune patologie complesse, disturbi della personalità anche gravi. In effetti, per una donna allegra e sportiva come me non è una cosa tanto normale… avrei potuto scegliere pediatria, oppure psicologia infantile, se proprio volevo occuparmi di psicologia. Sono le cose che mi ripete fino alla noia mia madre e le cose che quando un uomo con cui sto mi dice, causano l’immediata rottura della relazione da parte mia.
Eppure non sono una maschiaccia, anzi, ma alla mia indipendenza ci tengo con orgoglio e senza discussioni. D’altronde, nel mio lavoro ho sempre avuto un certo successo, sono riuscita a ottenere risultati di cui posso andare fiera. Certo, qualche sconfitta, qualche disastro mi è accaduto. Ma avendo a che fare quotidianamente con malattie mentali, è purtroppo abbastanza “normale”.
Circa vent’anni fa, ero da poco laureata, felicissima di ciò che stavo facendo, animata dal sacro fuoco, ma anche terribilmente spaventata per aver coscienza della difficoltà e della delicatezza di quanto stavo facendo. Il mio professore e nume tutelare mi chiese di assisterlo nella gestione di una comunità per tossicodipendenti. Ovviamente accettai, ma subito mi resi conto della follia che avevo commesso. Era giugno, la comunità ospitava una trentina di tossici pesanti. Tutti uomini, di età diversa, compresa tra i venti e i quaranta anni, rotti a tutte le esperienze. C’era chi si era fatto di crack, chi di eroina, chi si era fatto di lsd e chi aveva avuto l’onore di conoscere le nuove droghe sintetiche. Avevano tutti in comune una cosa, avevano aperto le pagine più laceranti che una persona possa conoscere, tanto da fargli perdere la coscienza di sé. Erano diventati vere proprie bestie, pronte a tutto pur di sopravvivere quel tanto che serve a farsi una nuova dose. Alcuni erano reduci dai carceri più abbrutenti, altri potevano contare su famiglie che si erano svenate pur di proteggerli dal carcere. Tutti avevano trovato nella cascina Fortemonte un’ancora. Erano ben consci del fatto che il lavoro in campagna, la cura di noi medici, la possibilità di stare lontani dalle periferie e dalla droga erano la sola scelta che avevano per tornare a ritrovare la dignità. Fermo restando che le loro menti devastate ricadevano in momenti di atrocità, annebbiate dall’esigenza fisica di provare il flash, trovare quel sollievo di un attimo dal quale si cade sempre più in basso.
Ma non basta. Non solo mi trovavo, ragazza carina e indifesa in un ambiente maschile pericoloso, ma essendo giugno, il mio prof. aveva architettato tutto per far sì che prendessi confidenza con l’ambiente per sostituirlo almeno quindici giorni in agosto, per una vacanza che non faceva ormai da oltre due anni. Quando mi resi conto della cosa, gli chiesi un incontro e scarmigliata e balbettante gli chiesi se mi volesse morta. Lui, calmo e serafico mi disse: “ma no, Gabriella, che dici? qui è tutto sotto controllo. Non sei sola, ci sono tre medici che vengono tutti i giorni a turno, c’è Pietro il fattore e i quattro ex. Poi io sono a meno di tre ore di macchina…”
“Tre ore di macchina? Calcolando che un drogato infoiato non cerca di soddisfare la sua partner durante una violenza sessuale e che quindi dura al massimo tre minuti, in tre ore faccio in tempo a farmi violentare sessanta volte (sono sempre stata brava in matematica)! In tre ore danno fuoco alla cascina ai fienili, alle stalle, si cucinano due mucche, si accoltellano, impalano Pietro e convincono i quattro ex tossici che hai inserito come tutor ad aprire la farmacia e fanno un party come non ne hanno mai fatti!”
Ero agitatissima e arrabbiata.
Mario, il mio Prof. no. Tranquillo, sornione, mi guardava con un sorriso velato, tra l’ironico e il commiserevole. “Ma Gabriè, che dici? Su, stai esagerando.” E cominciò a tessere le mie lodi, a ricordarmi il tirocinio fatto in un posto ben peggiore, a contatto con malati di mente criminali, a farmi immaginare una carriera luminosa fatta di riconoscimenti, convegni, conferenze, onori…
Bello e rassicurante, Mario mi fregò ben bene, così come sapeva fare. Sta di fatto che il primo agosto mi trovai sola a dirigere la comunità. Sulle colline dell’entroterra toscano d’estate fa un caldo da paura. Sudavo e non saprei dire se per la paura o per il caldo. Ma armata del mio migliore sorriso e decisa a dare di me l’impressione di una roccia incrollabile, mi recai a Fortemonte come tutti i giorni. Pietro e i ragazzi erano sotto il portico al tavolone e stavano definendo i compiti della giornata. Faceva già caldo di primo mattino e le cicale aumentavano quel senso di afa agostana con il loro incessante frinire. Mi salutarono come sempre e come sempre, un po’ scherzando chiesi chi di loro dovesse stare in campagna tutto il giorno. Sebastiano in particolare, quel giorno aveva terapia e dovevamo continuare ad affrontare un argomento doloroso di cui avevamo iniziato a discutere da una settimana, il suo rapporto con il fratello minore, più giovane di lui di tre anni e che era morto per un’overdose di roba tagliata male. Sebastiano era convinto di essere stato lui a mettere in circolazione quella roba schifosa e letale. L’eroina, quando diventa padrona di una mente, non fa più vedere le cose con razionalità e spesso, pur di ottenere un vantaggio economico, gli eroinomani sono disposti a tutto: tagliare la droga è un modo classico di fare la cresta sul valore della loro principale fonte di guadagno.
Sebastiano era un tipo violento, magro e nervoso, con i capelli lisci e lunghi che davano l’idea di non essere puliti, nonostante in comunità la cura del corpo era disciplinata con attenzione dai tutor che non facevano uscire nessuno dalla camera se prima non si era fatto doccia, lavato i denti, sbarbato e sistemato a dovere. Serve a dare ai ragazzi ordine, regole quotidiane, azioni da compiere, per ritrovare la propria fisicità, riconoscere il proprio viso, avere una figura in cui credere.
Mi avviai al piano di sopra, dove avevo lo studio. Entrai nel grande salone che dava ogni volta un senso di accoglienza e calore, così disordinato, pieno di cose, divani, colori, libri, strumenti musicali, quadri, pannelli su cui i ragazzi appuntavano disegni, frasi, ritagli costruendo un mondo di oggetti e segni del loro passaggio, della loro esistenza. Loro erano lì e il fatto di essere lì aveva un senso.
L’aria condizionata non era prevista. Fortemonte era finanziata da una fondazione alla quale contribuivano diverse persone non necessariamente benestanti coordinate da una anziana signora, cui l’eroina aveva strappato una figlia. La signora era invecchiata improvvisamente, ma aveva trovato nella fondazione una ragione di vita e le sue relazioni e la sua forza costituivano un capitale inestimabile per Fortemonte.
I ragazzi coltivavano i campi, producevano grano, ortaggi, pane, conserve, olio. Una parte della produzione veniva commercializzata al mercato del paese dove una volta a settimana si recavano a rotazione quattro ragazzi. Due dediti a vendere i prodotti alimentari, due a vendere gli oggetti realizzati nel laboratorio di carteria della comunità. Carte a mano, album, diari, quaderni, scatole, oggetti realizzati grazie all’impegno di un artigiano che veniva un giorno a settimana a insegnare ai ragazzi l’arte della carta.
Quel giorno faceva veramente caldo. Spalancai le finestre sul quadro rappresentato dalla campagna toscana e lasciai aperta la porta per far correre un po’ d’aria. In effetti, non si stava poi così male. Iniziai a studiare le mie cartelle, in particolare il caso di Sebastiano, che avrei visto nel pomeriggio. Sentii il furgone di Pietro che scendeva verso i campi con i ragazzi di turno, mentre intorno alla cascina sentivo le voci degli altri che attendevano alle altre occupazioni quotidiane. Pensai che aveva ragione Mario, tutto stava andando regolarmente, non dovevo preoccuparmi.
A metà mattina arrivò Armando, il collega che si occupava di alcuni casi molto difficili. Era un tipo strano, cicciotto, con la cravatta storta e il collo della camicia perennemente fuori posto, con i becchi alzati. Nonostante la sua aria tra il depresso e lo sfiduciato, Armando era un bravo medico, coscienzioso, stimato dai colleghi e capace di colloquiare con i ragazzi superando anche situazioni molto delicate. Passando mi salutò e si blindò nel suo studio. Mi rimisi al lavoro appuntando alcune cose che notavo dall’ultimo incontro con Sebastiano. Dal cortile le voci erano sparite, annullate dalla mia concentrazione, che però venne distolta da un coro di voci. “Dottorè, Dottorè!!!! Gabriella affacciate!” Un po’ scocciata per essere stata distratta, mi alzai e mi affacciai alla finestra pensando a uno scherzo dei ragazzi. Cinque di loro da sotto mi chiamavano parlando tutti insieme così da non farmi capire assolutamente nulla di quello che stavano dicendo. Sebastiano, il più grande e autorevole del gruppo li zittì, comprendendo il problema. “Dottorè scenni, ce stà la Viola che stà a sgravà”
Mi misi a ridere. “Ragazzi, io sono una psichiatra, non una ginecologa e tantomeno una veterinaria! Per giunta non ho mai amato le stalle. Chiamate Pietro al telefono e se serve il Dottor Cavicchia, il veterinario, ce l’avete il numero? Dov’è Alberto? (Alberto era uno dei tutor, quello che stava sempre alla cascina)”
Mi dissero che era dovuto andare in paese per una commissione in banca. Rientrai dopo avergli detto di chiamare Pietro. Mi rimisi a leggere e a studiare le mie carte, impermeabile ai rumori esterni.
Dopo neppure un quarto d’ora una nuova esplosione di voci mi richiamò alla finestra. Questa volta i ragazzi si agitavano e urlavano concitatamente. Fu Sebastiano a dirmi di scendere in modo convincente. Mi mostrò le mani sporche di sangue. Era pallido, cadde in ginocchio, mentre gli altri continuavano a berciare in modo convulso. Corsi fuori, chiamai Armando senza fermarmi e corsi giù. I ragazzi gridavano, ma sentivo anche un altro verso, quello di un animale dolorante, come se fosse ferito e in difficoltà. Sebastiano non era ferito e anche gli altri erano a posto, capii che qualcosa doveva essere successo alla vacca. Andammo correndo alla stalla. La Viola muggiva disperata col muso tirato dalla cavezza legata a un anello. Dietro di lei il vitellino urlava. Non capivo. Guardando meglio vidi che il vitello era ancora legato alla madre e che l’utero era uscito completamente, rovesciato al suolo. La Viola urlava in modo straziante. Cacciai d’imperio tutti tranne Sebastiano che riuscì a raccontarmi cosa stava succedendo. La situazione era terribile. Mentre Sebastiano raccontava io stavo telefonando a Pietro. Il vitello si era presentato podalico e faticava a nascere. La Viola spingeva, i ragazzi avevano provato ad aiutarla, incitandola, tirando per le zampe il vitello, ma niente, il parto era difficile.
Uno di loro (non si seppe mai chi fu l’astuto) ebbe un’idea. Presero il trattore, legarono le zampe del vitello al trattore e tirarono con quello. Ovviamente, in pochissimo il vitello venne alla luce, ma lo sforzo provocato alla madre causò la fuoriuscita dell’utero che ora giaceva al suolo tra liquami, paglia, liquido amniotico, in una poltiglia schifosa e maleodorante. Pietro sarebbe arrivato di lì a poco. Chiamai il veterinario, non sapendo che pesci pigliare, per giunta con la necessità di calmare i ragazzi che stavano perdendo completamente il controllo. Il veterinario candidamente mi disse di arrangiarmi, che era da un cliente e non poteva muoversi. Mi disse di tagliare il cordone ombelicale e rimettere dentro l’utero. Come se fosse la cosa più naturale del mondo. Urlavo disperata, lo minacciai di denuncia, gli chiesi come pretendeva che facessi una cosa del genere e lui ebbe l’impudenza di rispondermi, che ero un medico anche io…
Quando le mie minacce diventarono insulti alla categoria dei veterinari e gli dissi che avrei subito chiamato mio fratello giudice (barando) mi disse di calmarmi, di mettere guanti di gomma e di rimettere dentro l’utero, lui sarebbe arrivato appena possibile. Non so come feci a non svenire. Gli dissi che le condizioni dell’utero erano pessime, sporco di quella melma fatta di paglia, fango ed escrementi. Ma lui obiettò che le vacche sono forti, di tirargli una secchiata d’acqua fresca e rimettere a posto l’utero. Attaccai. I ragazzi mi avevano eletto a capo per come avevo gestito la cosa e maltrattato il veterinario. Due di loro si misero i guanti di gomma e iniziarono la penosa operazione, mentre la Viola continuava ad urlare con le zampe posteriori a terra che scalciavano in modo scomposto. Ero sicura che la vacca avrebbe contratto una setticemia. Troppa sporcizia. Il vitellino cominciava a tenersi in piedi sulle zampe traballanti e cercava la madre con versi di paura. La Viola continuava ad urlare e non riusciva ad alzare le zampe posteriori. Uno dei ragazzi vomitò, un altro piangendo continuava a chiedermi scusa, mentre Sebastiano guidava gli altri due che cercavano di restare freddi nonostante l’operazione che stavano compiendo. Arrivò Pietro, imprecando e di lì a poco anche Cavicchia, il veterinario. Era armato di un grosso ago e di un filo da pesca. Inorridii. Mi misi a urlare chiedendo cosa avesse intenzione di fare. Mi disse che sapeva lui cosa fare e che se non avesse cucito subito, l’utero sarebbe nuovamente uscito, al primo sforzo della vacca.
Pietro mi disse di andarmene, e che la responsabilità adesso era del veterinario.
Aveva ragione e poi dovevo occuparmi dei ragazzi, sconvolti dall’accaduto. Li feci venire con me. Si lavarono e poi davanti a una caraffa di limonata cercammo di calmarci tutti. Io dovevo mantenere le fila della situazione e non mi fu facile, essere presente con lo spirito, mentre sentivo la vacca lamentarsi e le voci alte, litigiose di Pietro e del veterinario.
Purtroppo, le mie conoscenze mediche mi dettero ragione. In una settimana la vacca morì. Diventò verde, gonfia, puzzava in modo indicibile. L’infezione si propagò rapidamente e non ci fu nulla da fare. Ero decisa a denunciare il veterinario, ma Mario mi convinse a non farlo. Una denuncia avrebbe sicuramente avuto ripercussioni sulla comunità, ci sarebbero state indagini sul nostro metodo di lavoro, sugli strumenti di cura, sulla sicurezza. Solo molto tempo dopo realizzai che Mario non volle un’indagine, perché sarebbe stato lui il principale responsabile, perché aveva lasciato la comunità alle cure di una neolaureata. I detrattori della comunità ci sarebbero andati a nozze.
I ragazzi rimasero sconvolti da quell’evento per parecchio tempo. Cercai però di dare un senso a quanto era accaduto, spiegando loro la differenza tra i ritmi ai quali siamo abituati nella vita moderna e i ritmi della natura. Se non si fossero fatti prendere dal panico, attendendo il veterinario, forse la Viola non sarebbe morta, la responsabilità che non era loro, invece era ricaduta su di loro proprio per non aver saputo guardare le cose con freddezza, aver agito d’impulso, senza pensare alle proprie capacità, alle conseguenze, tutte cose che fanno parte di un mondo di relazioni che un drogato perde, pensando solo a se stesso.
Piansero per giorni. Uno di loro si fece anche male per aver dato un pugno al muro.
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